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Giovani designer crescono e innovano. Intervista a Giada Lagorio

Giovani designer crescono. E innovano con un linguaggio moderno e pieno di contaminazioni in grado di parlare alla contemporaneità. Certo, in Italia non è facilissimo svolgere questa professione (soprattutto per le nuove generazioni di professionisti), ma la passione, si sa, non conosce ostacoli. E va applaudita. Lo scorso settembre a Firenze si è svolta l'edizione 2014 di Source, la mostra internazionale dedicata al design autoprodotto. Tra i nuovi talenti che si sono messi in vetrina nella manifestazione figura anche quello della designer genovese Giada Lagorio che in questa intervista ci parla dei suoi ultimi progetti, svelandoci il suo percorso formativo e le proprie idee. Raccontaci come nasce la tua passione per il design, in quale modo l’hai sviluppata e approfondita nel corso degli anni e su cosa ti stai dedicando in questo momento. Non credo si possa definire il momento esatto in cui ho iniziato ad appassionarmi di design. Credo che sia dovuto a un’innata passione per il disegno e per la manipolazione della materia nel suo senso più esteso. Nonostante abbia seguito un indirizzo di studi differente, ho sempre trovato tempo per dedicarmi al mio hobby, finché non entrai all’università di Design di Genova e poi al Politecnico di Milano, luogo in cui non è l’istruzione ad accrescere l’ambizione, quanto più la competizione in tempi di realizzazione e qualità del prodotto finito. Mi piace definirmi una neo-designer del prodotto con una profonda passione per la grafica digitale. In parole semplici, ho cominciato a lavorare come web designer junior per un’agenzia milanese e oggi opero come freelance per diverse aziende e collaboro in uno studio di comunicazione genovese. A Firenze in occasione di “Source self-made design”, mostra internazionale di design autoprodotto, hai presentato un progetto in cui hai realizzato un nuovo materiale ottenuto dall'amido di patate unito a scarti della lana. Ci spieghi come è nata e quali sono le finalità della tua idea? Il contesto che alimentò la mia iniziativa fu un misto di tendenze e una voglia di produrre qualcosa in grado di comunicare un messaggio. Fondendo la biologia fai-da-te (DIY Biology) e la gastronomia molecolare alla Laurence Humier con la Rivoluzione sostenibile, nacque un progetto di ricerca volto a valorizzare il processo di produzione e a risolvere un problema. Quest’ultimo fu la dismissione illecita degli scarti di lana nel mercato tessile e non solo: in Italia ogni anno si producono 12.000 tonnellate di lana di scarto. Il mio scopo divenne trovare un uso alternativo di questo materiale o una soluzione che potesse allungarne il ciclo di vita. Trovai la risposta nella chimica alimentare e mi convinsi della possibilità di poter produrre dei beni utilizzando la biotecnologia tradizionale ovvero partendo da sistemi viventi (microrganismi, cellule vegetali o animali). Dopo sei mesi di sperimentazione, creai una collezione di quattro materiali compositi al 100% organici, disponibili in sei tonalità cromatiche differenti. Ogni materiale può essere prodotto in casa propria con utensili da cucina e ingredienti economici. Diversi test fisico-meccanici vennero effettuatati sui materiali, ma il progetto rimase e rimane tutt’ora in fase di sperimentazione. Cook.to.Design non è un artefatto, ma è un approccio al Design del prodotto, che mira a divulgare le possibilità di manipolazione della materia e di applicazione della stessa.

Il food design è indubbiamente un filone in grande ascesa negli ultimi anni. Sperimentare con i cibi è un modo efficace per esprimere la nostra società? Sì, è indubbiamente un modo efficace per esprimere la nostra società. Ciononostante, devo specificare che il mio progetto non fa riferimento al food design nel suo significato più generico. Esso non mira alla produzione di utensili da cucina o allo studio di composizioni culinarie, ma propone la chimica alimentare come possibile soluzione al problema dei rifiuti industriali per la produzione di nuovi beni o servizi. A cosa ti ispiri in particolare nella realizzazione dei tuoi lavori? Processi di produzione DIY e Design for Sustainability. Praticità o estetica di un oggetto: su cosa è meglio puntare in fase di progettazione? La domanda del secolo che non ha mai avuto una risposta. Con riferimento specifico al mio progetto, indubbiamente scelgo la praticità. L’estetica si adatta alla forma e viceversa. E’ facile in Italia essere un designer? Il tuo futuro lo vedi qui? No, oggi non è facile in Italia essere un designer e soprattutto se si è agli inizi. Molto probabilmente, il mio futuro non sarà qui. Sto già optando per Paesi Bassi oppure Germania. Si vedrà. Luca Stefanucci

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Giovani Architetti

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